La maschera antigas nella Grande Guerra

La maschera antigas nella Grande Guerra

8 Settembre 2015

Camillo Zadra

Dall’aprile 1915 quando a Ypres, per la prima volta, i tedeschi rovesciarono sulle truppe francesi e canadesi nuvole di gas asfissianti, la maschera antigas entrò stabilmente nella dotazione dei soldati. L’adozione di tale dispositivo non fu, per la verità, immediato su tutti i fronti. Ancora più di un anno dopo, il 29 giugno 1916, reparti ungheresi scaricarono 6000 bombole di cloro e fosgene sulle linee avversarie cogliendo di sorpresa le truppe italiane e provocando migliaia di morti tra le loro file. Durante gli anni della guerra vennero adottati diversi modelli di maschera, nel tentativo di far fronte a composti chimici sempre più aggressivi prodotti dalle industrie dei paesi in conflitto.
La maschera antigas doveva far fronte ad un salto di qualità nell’uso delle armi: per quanto il gas non sia stato il dispositivo più letale della Grande Guerra (si registrarono più di un milione di casi di intossicazione, ma meno di centomila morti su più di 9 milioni e mezzo di caduti), fu senz’altro l’arma che più scosse nel profondo la sensibilità individuale e la sensibilità pubblica. Era una minaccia pressoché invisibile e silenziosa, che viaggiava trasportata dal vento e cambiava direzione imprevedibilmente (ritornando a volte su chi l’aveva liberata), stazionando nelle trincee in cui penetrava, e che sovvertiva il pericolo rappresentato dalle altre armi, veloci e devastanti. Una trincea, uno scudo, potevano proteggere il soldato dal tiro della mitragliatrice, da una scheggia, ma il gas agiva su un comportamento – il respiro – che toccava la dimensione fisiologica che l’individuo non poteva sospendere, dalla quale non poteva “proteggersi” smettendo di respirare.
Usata per tutta la Prima guerra mondiale, l’arma chimica continuò ad essere prodotta in grandi quantità nel dopoguerra, diventando tema di campagne a forte contenuto propagandistico e capaci in alcuni paesi (Francia e Inghilterra soprattutto) di alimentare una vasta sensibilità pacifista. Fu usata ancora nel contesto delle guerre coloniali (dalla Spagna in Marocco nel 1924 e dall’Italia durante la guerra contro l’Etiopia del 1935-36), ma non nella Seconda guerra mondiale, per l’evidente rischio di reciprocità cui esponeva i paesi belligeranti che avessero voluto utilizzarla.
In molte foto scattate durante la guerra, nelle quali soldati e ufficiali – da soli ma soprattutto in gruppo –  si fecero fotografare indossando maschere antigas ed assumendo atteggiamenti al tempo stesso impressionanti e grotteschi, cogliamo il tentativo di esorcizzare l’angoscia per la minaccia dei gas.
Forse gli austriaci e gli italiani che si esponevano all’obiettivo del fotografo volevano segnalare a chi viveva lontano dal fronte, in quella tenuta e in quell’aspetto minaccioso, una loro condizione di invulnerabilità, desiderosi essi stessi di farsi riprendere in quel sorprendente aspetto.
A cento anni di distanza dalla Grande Guerra, durante la quale decine di milioni di occhi si spiarono per anni da una trincea all’altra indossando quelle maschere, queste immagini dichiarano il salto verso la disumanizzazione compiuto nel corso del conflitto forse più ancora delle foto di soldati morti, mutilati o prigionieri.
Ai nostri occhi, l’impressione transgenica di quel camuffamento, pur se messo in scena per un’occasione estemporanea, travalica la funzione di protezione del dispositivo ed anticipa di trent’anni il verso della poesia di Primo Levi: “considerate se questo è un uomo”.

Dal “Trentino” di sabato 5 settembre 2015